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Il pentito che visse due volte. La seconda volta del pentito

testo di Gianluigi De Stefano, foto di Mario Spada

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28 maggio 2009

Ha sistematicamente fatto saltare i codici che regolano i rapporti sociali:
le norme dello Stato, i legami famigliari, le leggi non scritte delle cosche. È la rocambolesca storia di Vincenzo Calcara, ex pretoriano di Cosa nostra, oggi pentito e protet-to da Manfredi Borsellino, figlio del magistrato che avrebbe dovuto uccidere.



La canna della pistola compare improvvisamente davanti agli occhi come un enorme tunnel nero dove sta per transitare la sentenza di condanna per il soldato di mafia Vincenzo Calcara. Sul grilletto c'è il dito del boss che fino a quel momento lo ha nutrito, protetto e cresciuto. «Aveva scoperto che ero l'amante di sua figlia, la peggiore infra-zione alle regole di Cosa nostra. La mia condanna a morte doveva essere eseguita lì, immediatamente». Per un tempo incalcolabile i due uomini restano uno di fronte all'altro sapendo che il proiettile calibro nove è l'unica cosa che può ristabilire l'ordine delle cose. «Lo avevo fatto per sfidarlo. Lui non immaginava che io ero a conoscenza di segreti suoi che riguardavano me». Vincenzo racconta con la sua voce impetuosa, per nulla sovrastato da ricordi che spaventerebbero chiunque altro. «Ormai mi restava solo di ri-cevere un colpo in mezzo agli occhi». Il dito si ferma un attimo prima di premere il grilletto. La pistola si allontana dalla fronte, si abbassa. Inspiegabilmente il boss assolve il colpevole, senza un motivo né una parola.
«Era una decisione di cui si sarebbe dovuto assumere la responsabilità davanti ai suoi pari grado»: non eseguire una condanna a morte può costare la perdita dell'onore. Vincenzo comunque è salvo. Sa che non solo ha riguadagnato la vita, ma che sarà anche protetto, perché le giustificazioni che darà il boss per questo momento di debolezza dovranno essere molto convincenti.
Anche grazie a quel salvacondotto, forse, trova riparo in Sardegna. È il 1991, ha 34 anni e sei figli in altrettante città, in Italia e in Germania. È uno dei migliori soldati della mafia trapanese, mira perfetta e disciplina impeccabile. Il suo sorriso, la sua parlantina torrenziale, l'aria sicura e intelligente gli spalancano le porte del mondo femminile.
Ancora una volta, in quei mesi in Sardegna, è proprio a una donna che lega il filo della sua vita. «Maria era bellissima, sembrava una modella, alta, capelli neri. Appena la vidi nel piano bar le mandai al tavolo un fascio di rose. Ancora mi ricordo, erano trentasette rose rosse». Una ragazza di buona famiglia, volontaria in ospedale, ventidue anni appena ma già capace di riconoscere l'uomo della sua vita. «Aveva un accento siciliano leggero e parlava bene - ricorda Maria - mi disse di non illudermi perché lui aveva già una donna e dei figli».
Raccontano la loro storia insieme, passandosi il telefono dalla loro casa in una località segreta dove hanno trovato un po' di tranquillità. «Dopo qualche giorno mi innamo-rai, ma la chiave che portava al collo e la sua valigia sempre chiusa mi tormentavano», racconta ancora Maria. Vincenzo si era presentato come Ruggero, geometra siciliano in Sardegna, ma qualcosa di strano, in quel geometra, Maria lo aveva notato. «Per scoprire cosa c'era nella valigia mi procurai di nascosto del sonnifero in ospedale e orga-nizzai una serata solo per noi due, con champagne e musica».
La piccola chiave fa scattare la serratura e il coperchio della valigia si sgrana insieme agli occhi della ragazza. «Un saio da frate, una parrucca, baffi finti, documenti falsi e, in fondo, due pistole che mi parvero enormi. Richiusi tutto e non dissi niente». La doppia vita di Ruggero era tutta là dentro, assieme a misteri probabilmente inconfessabili.
«Dopo tre giorni viene e mi dice quello che aveva fatto con il sonnifero, capisci?». Vincenzo fa esplodere la voce quando ricorda quel giorno. «Mi sfidava con lo sguardo, mi diceva di avere scoperto tutto. Si scusava di avermi ingannato però non abbassava gli occhi. Ero in pericolo, una parola alla polizia e sarei stato preso. Mi restava solo una cosa da fare. C'era una vestaglia di seta con la cintura, pensai di usare quella. Fregato da una donna, io!». Ancora una volta una femmina, una stanza da letto e una condan-na a morte. «Restai colpito da quella ragazza. Io le avevo mentito ma dopo uno scatto d'ira realizzai che non mi aveva denunciato». Ancora una volta la condanna è sospesa.
«Ormai ero innamorata di lui e non mi importava del suo passato». Maria gli comunica la sua decisione: «Ti puoi nascondere nel podere di mio padre. Ti proteggerò io». Per qualche mese Vincenzo resta nella casa di campagna della famiglia. «Sognavamo una vita diversa, un ristorante, una casa all'estero, mi chiedeva di cambiare strada per amore suo». La latitanza, però, ha regole precise: mai restare troppo a lungo nello stesso posto. Vincenzo sparisce improvvisamente senza dire nulla. In Sicilia viene arresta-to e ha l'incontro decisivo.
«Dottor Borsellino, ero stato incaricato di ucciderla, ora le racconto tutto». Inizia con queste parole, alla fine del 1991, la sua collaborazione con la giustizia. Calcara rac-conta a Paolo Borsellino tutta la sua vita, i suoi delitti, la sua latitanza. Il giudice è l'unico uomo in grado di fare breccia nel cuore del mafioso. «Divenne la mia guida spirituale, mi fece capire la differenza tra il bene e il male. Mi pentii davvero solo grazie a lui».
  CONTINUA ...»

28 maggio 2009
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